Chicken Little, il cortometraggio del 1943: “Questione di psicologia”

La Walt Disney ha realizzato due versioni animate del racconto popolare noto come Henny Penny o Chicken Little (o anche Chicken-Licken), noto come uno dei più celebri racconti popolari che fanno luce sulla paranoia e l’isteria di massa.

Le due versioni di Chicken Little di Walt Disney sono rispettivamente: la prima del 1943 e la seconda, più recente e nota a molti, del 2005. Oggi voglio parlarvi della versione del 1943. La versione del 1943 parla delle paure e fobie del periodo storico della Seconda Guerra Mondiale.

“Questione di psicologia” (datato 1943) è il cortometraggio animato realizzato e distribuito da Walt Disney durante la Seconda Guerra Mondiale, su richiesta del governo degli Stati Uniti, allo scopo di screditare il nazismo e diffondere il messaggio che l’allarmismo indebolisce lo sforzo bellico e costa delle vite. Originariamente il film avrebbe dovuto avere più riferimenti diretti alla guerra e al nazismo, ma Walt Disney decise di non inserire richiami espliciti: il libro di psicologia di Foxy Loxy in origine doveva essere il “Mein Kampf” e le tombe dovevano essere a forma di svastiche.

Il cortometraggio è ambientato in un pollaio felice; un vero e proprio “piccolo villaggio” con tanto di sindaco, comari (tra queste la pettegola Henny Penny), saggi studiosi (tra questi il tacchino Turkey Lurkey) e ubriaconi (tra questi Ducky Lucky e Goosey Loosey) e tanto di luoghi di ritrovo, come coiffeur shop, sale da tè, sale da ballo e pub.

La vita serena del pollaio è turbata dalla presenza del predatore Foxy Loxy (in italiano Sbavo Volpo) in agguato al di fuori della staccionata. Questa, per sua sfortuna, è impenetrabile: per di più, gli animali sono guidati dal saggio sindaco Cocky Locky (in italiano GalliGall), che provvede in tutto e per tutto alla loro sicurezza. Foxy non si dà però per vinta: da brava volpe, decide di giocare d’astuzia, e cerca un modo per far uscire gli animali dalla fattoria di loro spontanea volontà. Come spera di riuscirci? Con l’aiuto di un manuale di psicologia (allegoria del “Mein Kampf”).

Il libro consiglia alla volpe di adescare l’individuo meno intelligente per convincere tutti gli altri abitanti della fattoria a uscire. La sua scelta ricade sul pulcino Chicken Little, in italiano Paul Cino, un giovane pollo dall’aria non troppo sveglia che passa il proprio tempo a giocare con uno yo-yo. Foxy, sempre consigliato dal manuale, gli racconta: il cielo sta per cadere! Per convincerlo, la volpe fa un po’ di scena con del fumo e gli tira in testa un pezzo di legno dipinto di azzurro: questo basta per terrorizzare il pulcino, che trascina tutti gli abitanti sul luogo dell’accaduto. Il giovane pollo mostra loro il pezzo di cielo che gli è caduto in testa: Cocky Locky, che per fortuna è più sveglio, riconosce che è solo un pezzo di legno e riporta l’ordine; Chicken Little viene lasciato sul posto, sconsolato e deriso.

La volpe però non si arrende: sempre seguendo il libro, lancia una campagna denigratoria per screditare Cocky Locky agli occhi degli abitanti, e convince Chicken Little di essere un grande leader, facendo leva sulla sua voglia di rivalsa. Infine, da abile manipolatrice, li porta allo scontro in un pubblico dibattito, durante il quale colpisce il vecchio sindaco con un altro pezzo di legno colorato a mo’ di cielo. Cocky Locky, già guardato con diffidenza a causa delle fake news messe in giro dalla volpe, perde ogni credibilità; gli animali si affidano a Chicken Little, che suggerisce (naturalmente su consiglio della scaltra Foxy) di rifugiarsi nella “caverna”, fuori dalla fattoria. La “caverna” in questione non è altro che la tana della volpe: non appena tutti sono entrati, Foxy li chiude dentro per mangiarseli. Il narratore del cartone a questo punto ci rassicura: tranquilli, queste storie vanno sempre a finire bene… La storia va sì a finire bene, ma solo per la volpe: Foxy si mangia tutti gli animali della fattoria. Infatti, la vediamo con la pancia piena divertirsi a disporre in fila tutte le ossa degli (ormai ex) abitanti Al che il predatore, giocherellando con lo yo-yo di Chicken Little e mostrando il libro che l’ha condotta al successo, risponde sarcasticamente: “Ah sì? Non credere a tutto ciò che leggi, amico!”.

Il motivo di tale scelta è che Chicken Little è una denuncia nei confronti dell’isteria collettiva che negli anni precedenti aveva portato al potere pericolosi dittatori, Hitler su tutti. Il cartoon vuole mettere in guardia lo spettatore: queste idee folli e pericolose potrebbero dilagare, attraverso personaggi insignificanti, anche nelle fattorie guidate dai galli più illuminati…In questo noi Italiani abbiamo vari esempi di politici e non solo che fanno ancora una propaganda simile a quella della volpe del nostro cartone della Disney.

Il sindaco Cocky Locky, infatti, è il simbolo della democrazia: soccombe perché non riesce a far valere il dialogo contro le menzogne e gli slogan della volpe. Chicken Little, invece, rappresenta ciò che gli americani devono evitare: se si lasceranno prendere dal panico e dalla paura, finiranno per fare il gioco dei regimi totalitari senza nemmeno rendersene conto. Foxy Loxy, infine, simboleggia la minaccia nazista: bisogna adoperarsi affinché la sua propaganda non distrugga altre “fattorie”, come ha già fatto in Europa.

A conferma che questa sia la corretta interpretazione di Chicken Little c’è poi il curioso manuale di psicologia usato dalla volpe in tutto il cartone. Vediamo più in dettaglio i suoi consigli.

  • Per influenzare le masse, iniziate dagli individui meno intelligenti.
  • Se raccontate una bugia, non raccontatene una piccola. Raccontatene una grande.
  • Minate la fiducia delle masse verso i loro leader.
  • Tramite l’adulazione, persone insignificanti possono convincersi di essere dei leader nati.

Queste massime non provengono certo da un testo di psicologia qualunque: si tratta infatti di citazioni, adattate alla vicenda del cartone, tratte dal Mein Kampf, il testo scritto da Hitler negli anni ’20 diventato poi il manifesto del nazismo! Addirittura, il progetto originale prevedeva che sulla copertina del libro ci fosse scritto il titolo della malfamata opera: tuttavia Walt decise di cambiarlo con un più neutro “psychology”, per evitare che il corto risultasse troppo datato una volta finita la guerra. Sempre per questo motivo, le tombe dei trapassati abitanti della fattoria, che avrebbero dovuto essere a forma di svastica, vennero rese più neutre, anche se venne mantenuto l’aspetto di un cimitero di guerra. Oggi gli esempi alla politica sarebbero veramente tantissimi e noi Italiani non possiamo certo credere di non avere nella nostra politica personaggi di questo genere…Ma oltre agli aspetti prettamente politici oggi il mio pensiero legato a questo cortometraggio mi riporta a tutti i negazionisti e complottisti del covid-19. Oggi siamo di fronte ad un trauma collettivo che avrà delle ripercussioni nel tempo. Massimo Recalcati dice “una prima risposta a un trauma collettivo può essere la guerra che paradossalmente sarebbe rassicurante in quanto implicherebbe un nemico identificabile, con un volto con dei confini …invece il problema è che il virus queste caratteristiche non le ha: non è localizzabile, non è confinabile, ma è ovunque…è dappertutto, anzi noi stessi siamo portatori di virus…Simona Argentieri -psicoanalista didatta Associazione Italiana di Psicoanalisi/AIPsi dal Fatto Quotidiano del 8/9/2020 scrive “Ben più serio ed esente da qualunque sfumatura di ingenuità è invece il fenomeno del“negazionismo”, che sembra ispirare le frange più accanite di questi manifestanti. I capostipiti del negazionismo sono coloro che da decenni appunto negano la realtà storica del nazismo e dei suoi misfatti. La funzione del gruppo è evidentemente quella di rinforzare gli adepti nella loro credenza, di sostenerne l’autostima e di eludere ogni senso di responsabilità e di colpa; trasformando in valore ideale la distorsione dell ’evidenza e – come è ben noto – scatenando una carica violenta di aggressività contro chiunque tenti di contraddirli. Il modello di funzionamento psicologico alla base è un meccanismo di difesa ben noto in psicoanalisi fin dal tempo di Freud: il “diniego ”, per cui un paziente si rifiuta di ammettere un contesto di realtà oggettive e percettive che gli è sgradito, fonte di angoscia e paura. È un grave sintomo di area psicotica, delirante, che protegge dalla sofferenza, ma al prezzo di sacrificare una parte della realtà (ad esempio, un vistoso sintomo di malattia). La caratteristica del diniego è che la follia si concentra su un nucleo circoscritto, mentre il resto della persona funziona relativamente bene, in contatto con le leggi del mondo reale circostante. Esistono però anche forme parziali, episodiche di diniego: come chiudere impulsivamente gli occhi per non vedere qualcosa di brutto. Per restare alla pandemia, lo facciamo un po’tutti quando ci diciamo “andrà tutto bene”, “a me non suc-cederà niente”. Sono piccoli espedienti per rassicurarci, momentaneamente utili, innocui se non sfociano nell’incoscienza e –qui sta il punto –se non si trasformano in “movimenti” sistematici e in comportamenti di gruppi. Temo peraltro che a favorire questi ‘capricci cognitivi’ contribuiscano alcuni equivoci culturali dominanti. Per il timore di essere intolleranti, rischiamo di scambiare per ‘libertà’ la scarica incontrollata dell ’impulso. E riteniamo che sia democratico dare pari dignità a qualunque estemporanea opinione messa a confronto con le evidenze scientifiche (sempre sottoposte, per metodo, a ripetute revisioni e verifi-che). Come se si trattasse di cre-dere o non credere nel riscaldamento globale, nel covid, nell ’essere mortali. Non basta a tranquillizzarci che i seguaci siano relativamente pochi, poiché sono diffusi in tutta Europa. Io invece continuo a pensare che dobbiamo rispettare le persone, non le idee. Ripensando alla mia incertezza iniziale, concludo che tutto questo surreale e pittoresco ‘m o v i m e n t o’ non mi fa ridere (non riesco a mandar giù neppure gli oroscopi che infestano la carta stampata). Mi suscita invece un forte sgomento, perché è pericoloso e ci consegna alla superstizione, al pregiudizio, all ’elusione della fatica di pensare”

… Eppure quelle tombe che riportano a immagini di guerra oggi ci fanno riflettere anche su quanto accaduto qualche mese fa e che in qualche modo si sta ripresentando…quelle persone morte tradotte in numeri che riporta all’anonimità e quindi a mettere una distanza tra noi e quelle persone…tutto ciò sta disumanizzato la morte stessa…se malaguratamente ti ammali e devi sottoporti ad un’operazione complessa rischi di varcare la porta dell’ospedale e di non avere più notizie del tuo parente e parliamoci chiaramente è faticoso per i propri cari sentire che sei solo il letto 5 del reparto di terapia intensiva di un qualsiasi reparto adibito o non a covid…Recalcati dice “l’atto fondamentale della cura da parte dei medici e degli infermieri nei confronti di chi ci sta per lasciare è l’evocazione del nome …di non lasciare che quella vita diventi solo un numero…”mi piacerebbe poterlo pensare e magari molti lo fanno, ma la realtà è che non sempre è così… Il discorso sarebbe molto più complesso e articolato, ma credo di essere stata esaustiva rispetto ad un tema che non fa altro che manifestarsi attraverso meccanismi difensivi psicotici… cerchiamo di avere più rispetto per tutte quelle persone morte per covid e proviamo ad “umanizzarle” non parlando più solo di numeri, ma di ridare un nome a tutte vittime…

La consultazione partecipata

ll modello della Consultazione Partecipata (CP) nasce nell’ottica della prevenzione dove anche i genitori prendono parte al setting.

È un intervento fondamentale nella fascia 0/6 anni, ma anche con i bambini fino alla pubertà (sino ai 12 anni circa). Ci sono studi che estendono la consultazione partecipata anche agli adolescenti. Personalmente in molte circostanze l’ho messa in atto perché da due anni seguo corsi di aggiornamento proprio tramite l’associazione Dina Vallino.

Questo modello di consultazione deriva da un lungo lavoro di ricerca che l’analista italiana Dina Vallino ha svolto nel campo dell’Infant-Observation, a partire dalla fine degli anni ’70.

Compito della Consultazione Partecipata è quello di esplorare il disagio del bambino e dell’adolescente per come si presenta nella seduta, incoraggiando i genitori a diventare osservatori partecipi della relazione tra sé e il figlio. I genitori sono invitati a guardare il loro bambino riconoscendone i bisogni, tenendo conto della sua persona, dell’importanza della sua mente affettiva, delle sue difficoltà, ma anche delle sue risorse; si promuove ed allena una capacità osservativa che aiuti il genitore a meglio conoscere il figlio.

Gli strumenti di lavoro che come psicoterapeuti abbiamo mentre siamo all’opera nella stanza con bambini e genitori sono: il gioco narrativo, la storia, il “luogo immaginario”, il disegno, la tecnica delle storie disegnate quindi strumenti che usano un linguaggio metaforico inconscio. In particolare l’uso della storia del Luogo Immaginario testimoniano la continuità con la tradizione psicoanalitica della simbolizzazione inconscia. Altri strumenti sono l’ascolto rispettoso e non intrusivo. Questi strumenti sono importanti perché attraverso essi il bambino comunica la natura della sua sofferenza. Con questo linguaggio metaforico il terapeuta diviene fondamentale perché traduce le simbolizzazioni infantili e adolescenziali in un linguaggio condivisibile con i genitori.

Il setting della consultazione partecipata

La CP può avere una durata breve iniziale di 5 incontri o prolungarsi per circa un anno (CP Prolungata). Personalmente mi attengo alla durata classica dei 5 incontri ai quali di solito, ma non necessariamente può far seguito l’inizio di un percorso rivolto al bambino o all’adolescente.

Di seguito vi riporto un stralcio del libro di Dina Vallino:

“Interpellata perché esprima un parere e un consiglio, quando i genitori, nel primo colloquio, mi parlano delle loro preoccupazioni sul disagio del figlio o eventualmente di sintomi già consolidati, espongo brevemente il mio progetto di consultazione partecipata e prolungata. Prevedo una consultazione distribuita in circa cinque incontri, un incontro con i genitori, tre incontri con i genitori insieme al bambino/a (oppure il figlio/a con la sola madre o con il solo padre), un incontro finale con i soli genitori. In molti casi è necessario prevedere una restituzione al bambino. Dopo che mi sono fatta una mia idea di cosa impediva a quei genitori di cavarsela con quel figlio e l’avrò discusso con loro, comincerà la riflessione sul che fare in cooperazione con i genitori e coinvolgendo il bambino. Il setting di base, di cinque incontri, potrà essere dilatato secondo necessità. Dopo il quinto incontro di base la consultazione potrà prolungarsi per un periodo che verrà discusso insieme, a seconda del progetto terapeutico che si riterrà utile. Il punto essenziale riguarda la mia richiesta ai genitori che essi, nel successivo incontro insieme al figlio, concentrino la loro attenzione sul comportamento e il gioco del loro figlio al fine di discuterne successivamente con me, in un incontro separato, in modo da non disturbarlo. Sono incontri in cui l’attenzione di noi adulti è rivolta alla comunicazione e alle ragioni del bambino, che si esprimono per lo più con il gioco e il disegno, anche se alcuni bambini conversano molto speditamente con me del loro disagio o di altro. Il perno di tutto il lavoro sta negli incontri con i genitori insieme con il figlio. Più precisamente la regola fondamentale del mio setting è la seguente: convinta dell’importanza che un adulto aiuti il bambino a realizzare il suo gioco, i genitori sono da me invitati a fare come a casa, cioè a partecipare al gioco del bambino aiutandolo. All’inizio c’è qualche imbarazzo, ma poi la situazione si accomoda. Scopo della consultazione è individuare la linea di sviluppo nascosta del bambino, la possibilità che i genitori hanno di capirla e l’intreccio con il sintomo. Non si tratta di dare inizio alla “cura”, né di mostrargli a ogni costo che l’analista è in grado di capirlo o mostrare ai genitori che è in grado di capirli, ma solo di stare lì a osservare l’evoluzione di certe linee di sviluppo di cui il bambino è certamente competente: nel gioco, nel disegno, nella storia. Le stesse cose che vede l’operatore le vedono i genitori. Oltre a questa finalità cognitiva, io do importanza al momento affettivo: nella consultazione partecipata ci si dovrebbe adoperare affinché l’incontro sia per il bambino una occasione unica per presentare il suo sentire e averne sollievo e per i genitori un’opportunità per parlare con il loro figlio, per quanto piccolo sia, con strumenti mediati dal pensiero psicoanalitico, e non del loro figlio. Nella successiva riunione separata con i genitori senza il bambino discuto con loro quello che è successo precedentemente in presenza del bambino (a volte leggendo un mio testo scritto, che riassume la seduta con il bambino). In questi incontri c’è un work in progress: i genitori sono invitati a proporre le loro interpretazioni, permettendomi di integrare con la loro esperienza quei dati che mi erano apparsi confusi o disorientanti. Segno nel testo scritto per la discussione tutti i punti dubbi, ma anche le più interessanti proposte e strategie di intervento nel gioco da parte dei genitori. Cerco di essere per i genitori la migliore collaboratrice possibile per la cura del loro figlio. Tale collaborazione potrebbe sembrare irrealizzabile quando è evidente la patologia dei genitori, tuttavia anche in questo caso risulta possibile lavorare con loro sulla problematica che affligge il loro rapporto con i figli. Con questo setting ho avuto modo di comprendere che i bambini si aspettano dalla mia presenza e dalla mia testimonianza di poter essere rimessi in contatto con mamma e papà. A seconda della situazione, propongo ai genitori, per introdurli ulteriormente nella logica del mio metodo, qualcuna delle considerazioni che seguono. L’osservare diverse volte i comportamenti e il gioco del loro figlio darà ai genitori l’opportunità di chiarirne con me il significato e anche di poter trovare da sé risposte concernenti i vissuti, i pensieri e gli stati d’animo del loro bambino, chiarimenti sul loro reciproco rapporto, ipotesi e strategie di soluzione. Che i genitori incontrino i figli insieme all’analista può essere utile all’intera famiglia. I genitori possono scoprire negli incontri, in presenza dell’analista, aspetti sconosciuti dei figli che, a loro volta, possono esprimere il loro disagio non con i sintomi ma con la comunicazione del gioco e del disegno. I genitori possono avvertire, durante questi incontri, che per ripristinare un equilibrio con i bambini è importante anche il fare insieme a loro un piccolo progetto di gioco e racconto, che li avvicini con semplicità.  Sappiamo che il materiale da gioco e l’offerta di disegnare e raccontare sono la base per la diagnosi e per la terapia infantile. Ma nella consultazione partecipata, in presenza dei genitori, gioco, disegno e racconto sono soprattutto elementi per offrire loro l’opportunità di scoprire aspetti sconosciuti del loro figlio e per me l’occasione per farmi un’idea su qualcosa del bambino che non avevo previsto nel primo colloquio con i soli genitori. Lo spunto per programmare una diagnosi o per iniziare un trattamento si presenterà alla fine del percorso di consultazione partecipata, ma non è l’obiettivo della consultazione partecipata, che riguarda invece l’attenzione al legame genitori-figli e alla turbolenza emotiva del campo familiare”. (Vallino, Dina. Fare psicoanalisi con genitori e bambini (Italian Edition) . Mimesis Edizioni).

La consultazione ci chiede, in quanto professionisti della salute e della cura della persona, di permettere che all’interno del bambino e della famiglia possa nascere il pensiero, la speranza, l’illusione Winnicottiana ovvero la fiducia.

Bambini e cibo…un approccio psicologico per favorire un buon rapporto con il cibo

Cosa ci spinge a mangiare? Molti diranno che è la fame…ma come capiamo di avere fame? Molti non sanno rispondere e questo perché ci sono diversi tipi di fame e tutti i tipi di fame sono delle esperienze che comprendono sensazioni, pensieri ed emozioni nel corpo, nella mente e nel cuore.Possiamo dire di aver fame per molte motivazioni. Perché non mangiamo da due giorni, perché siamo stanchi, o ansiosi, o ci sentiamo soli o annoiati. Certe volte la nostra non è proprio fame di cibo, ma siamo noi che reagiamo ad alcune sensazioni mangiando. Con il percorso: Bambini e cibo…un approccio psicologico per favorire un buon rapporto con il cibo, analizzeremo tutte le motivazioni diverse dalla fame biologica…Per info: 3311179439 o inf@studiopsicologapacciana.it

Bambini e cibo. Un approccio psicologico per apportare un cambiamento al nostro modo di affrontare il problema



Lavoro da molti anni con persone che chiedono aiuto per varie situazioni tra cui l’ansia, la depressione, le dipendenze, problemi coniugali, disturbi alimentari (DCA) come l’anoressia, il binge eating o la bulimia. Ci dimentichiamo però che la psicologia può occuparsi anche di prevenzione e anche di ciò che non rappresenta una psicopatologia…insomma può mettersi al servizio di persone che necessitano di capire qualcosa in più su un problema che stanno vivendo. Quando sono diventata mamma mi sono resa conto di quanto questo discorso fosse importantissimo ossia mettere la psicologia al servizio di persone che vivono qualche difficoltà e che non vivono situazioni patologiche. Sono una psicoterapeuta quindi sostengo le persone che decidono di fare un percorso di psicoterapia, ma a volte ci si attiva a patologia conclamata. L’obiettivo di questo percorso è ritrovare la centralità della genitorialità in quanto la relazione genitore-figli è qualcosa di prezioso che nessuna stanza di terapia, quando non c’è nessuna psicopatologia, può colmare. Infatti il mio intento è attivarmi in ottica di prevenzione).

Uno degli argomenti che come mamma psicoterapeuta vorrei divulgare è in riferimento all’alimentazione dei bambini. Alcuni comportamenti legati al cibo seppure non psicopatologici apportano malessere. Viviamo in una società di persone ben informate sul cibo; infatti ci propinano per esempio ogni anno a scuola, cominciando già dalla scuola dell’infanzia, la solita informazione nutrizionale e in televisione non si fa altro che parlare di cibo con vari esperti del settore. Possiamo dire che c’è un eccesso di attenzione al cibo con un aumento di consapevolezza sugli alimenti sani che apportano benefici alla salute, ma adesso vi porgo qualche domanda:

  1. Le informazioni nutrizionali insegnate a scuola hanno portato dei cambiamenti nei vostri figli?
  2. Il fatto di sapere che alcuni cibi fanno male e altri invece sono indispensabili per la nostra salute vi ha messi nella condizione di mangiarli e soprattutto di farli mangiare regolarmente (tutti i giorni) ai vostri figli?

Io come mamma vi dico già che la maggior parte delle persone risponderanno con un NO a queste mie domande e questo per semplice motivo:

  • si continua a considerare il cibo solo dal punto di vista biologico e ci si dimentica che il comportamento alimentare è frutto di influenze sociali, condizionamenti ambientali, processi di apprendimento e abitudini automatiche. A scuola succede proprio questo: ci sono una miriade di progetti, ma tutti disancorati da una visione più ampia della questione … i progetti sono spesso trattati solo dal punto di vista biologico e nutrizionale e mai si associa anche l’aspetto psicologico…
  • Non voglio entrare nel vivo di aspetti più psicologici per non entrare poi nei meccanismi psicopatologici, ma è importante dire che la nostra specie ha trasformato il bisogno primario di nutrirsi anche in un’occasione di scambio e di relazione. Attraverso il cibo superiamo l’estraneità e si diventa amici, fidanzati, parte della famiglia, alleati, etc, infatti il rapporto con il cibo è il rapporto con gli altri ed è attraverso il cibo che si struttura il primo rapporto diadico. Attraverso il cibo veicoliamo emozioni positive e/o negative… (e questo lo affronterò quando vi racconterò la fame emotiva…) .

Insomma è abbastanza scontato non essere riduttivi e per fare in modo che tutto possa funzionare al meglio bisognerebbe guardare al cibo da tutti i punti di vista senza escluderne altri e soprattutto di non improvvisarsi psicoterapeuti quando non lo si è e non dare informazioni legate al cibo dal punto di vista biologico se non si hanno degli studi in merito.

L’obiettivo di questo percorso è quello di cercare di dare informazioni dal punto di vista psicologico così da aprire spunti diversi per guardare all’alimentazione… e magari provare a cambiare qualcosa…

Lo psicologo che lavora con le problematiche alimentari interviene nell’ambito dell’educazione alimentare e non nutrizionale, ovvero porta l’attenzione non sul “cosa mangiare” ma sul “come far mangiare” gli alimenti necessari nelle giuste quantità sia nei bambini che negli adulti. L’intervento rivolto ai bambini deve prevedere necessariamente il coinvolgimento della famiglia, in particolare dei genitori: infatti, soprattutto in età evolutiva, il sistema educativo familiare influisce nel rapporto con il cibo attraverso due principali modalità di apprendimento: una è il modeling e l’altra l’associazione tra cibo ed emozioni, ma di questo ne parleremo a breve.

Spesso facciamo delle cose poco sane che pur sapendo ci facciamo male continuiamo a farle, per esempio:

  • Fumiamo, eppure sappiamo quanto sia dannoso;
  • Facciamo poco sport;
  • Mangiamo in modo scorretto;

Vogliamo cambiare e puntualmente dopo un mal di gola o un dolore al petto ci promettiamo di smettere di fumare oppure il giorno stesso di un’abbuffata ci ripromettiamo di metterci a dieta e di far mangiare in modo corretto anche i nostri figli, ma puntualmente il ciclo ricomincia e ci ritroviamo nella nostra stessa morsa. Vorremmo cambiare e sembriamo motivati al cambiamento, ma qualcosa non va e così continuiamo con le nostre cattive abitudini. Nel percorso affronteremo le abitudini alimnetari e non solo e cercheremo di vedere come si attivano e cosa possiamo fare per non esserne più schiavi.

Certo l’idea di andare da uno psicoterapeuta per queste motivazioni non ci balena nella mente e così passano anni e non ci decidiamo a chiedere aiuto… anche perché diciamoci la verità andare dallo psicologo-psicoterapeuta non è semplice…accettare di andarci quando si ha un problema legato al fatto di non riuscire a  seguire una dieta lo è maggiormente quindi decidere di andare da un professionista della mente senza essere afflitti da una psicopatologia è ancora più difficile…ma posso dire che qualcuno invece riesce a far richiesta di aiuto per cercare di migliorare il loro rapporto con il cibo, con il proprio corpo, ma soprattutto incontro genitori preoccupati della salute alimentare dei propri figli e che cercano di capire come fare per intervenire  per aiutarli e non “curare” perché ancora non hanno sviluppato, e forse mai la svilupperanno, una psicopatologia legata al cibo. Incontro genitori istruiti dal punto di vista dell’alimentazione eppure si trovano davanti ad un paradosso: ho molte informazioni legate al cibo eppure mio figlio non mangia in modo corretto. Infatti l’eccesso di informazioni ha causato una maggiore angoscia da parte dei genitori creando di conseguenza maggiori conflitti soprattutto legati al momento del pasto. La loro domanda è “Posso cambiare qualcosa” e soprattutto “come posso cambiare?”.

Con questo percorso cercherò di dare risposte dal punto di vista psicologico e quindi non troverete nessuna informazione di carattere nutrizionale, ma imparerete a rivalutare le vostre aspettative rispetto all’argomento cibo nei riguardi dei vostri figli, imparare ad ascoltare e ad accettare anche le esigenze degli altri e quindi dei nostri figli e soprattutto (anche a fronte di come io stessa come mamma con consapevolezza da psicoterapeuta ho affrontato e risolto il problema con mio figlio) vi aiuterò a descrivere il comportamento problematico (e non patologico), come e quando si è manifestato, a capire i vari punti di vista etc…

Cercherò di rispondere alle vostre maggiori angosce:

  • Quando un bambino mangia poco o mangia solo alcuni alimenti o non mangia frutta e verdura oppure se mangia troppo o mangia spinto dall’emotività. Vi aiuterò a guardare a questi problemi nell’ottica psicologica e a mettervi nella condizione di capire le cause di un comportamento e trovare poi delle soluzioni e soprattutto apportare un cambiamento per buona pace di tutti e soprattutto dei vostri figli. Affronteremo anche la seconda parte del percorso che sarà dedicata alla mindfuleating, un approccio al cibo che deriva dalla mindfulness. Ma di questo vi parlo nel prossimo post!


Lo stress nei bambini

Molti adulti credono che l’infanzia sia un isola felice fatta di spensieratezza e di vacanze tanto che spesso ci soffermiamo e guardare i bambini esclamando quanto segue: “ come vorrei tornare bambino/a”. Però da un po’ di tempo a questa parte, guardando sia l’utenza del mio studio che i bambini apparentemente senza problematiche, mi sto chiedendo se lo stress non faccia capolino anche nella vita dei più piccoli. 

Innanzitutto vedo sempre più spesso un non riconoscimento dell’emotività sperimentata dai bambini sia al verificarsi di eventi maggiori, che cambiano radicalmente la loro vita, o di eventi minori come un trasferimento, problemi con i compiti a scuola, il passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria con un carico di responsabilità maggiori, il passaggio anche alla secondaria di primo grado, l’aver conseguito una cattiva performance sportiva, problemi con i compagni di classe etc… Come se la sofferenza di bambini sia più semplice da gestire rispetto a quella degli adulti, infatti spesso gli adulti tendono a sminuire la loro eventuale emotività.

Anche in assenza di eventi stressanti specifici i bambini vivono una situazione di vita alquanto difficile e questo per vari motivi. Qui di seguito vi elenco alcune delle motivazioni:

  1. Sono soggetti  a regole non sempre coerenti da parte dei genitori. Le regole sono importanti, ma è l’incoerenza a renderle vane;
  2. Sono spesso puniti per loro condotta scorretta, ma il bambino non capisce la motivazione della punizione e questo perché l’adulto raramente si sforza di spiegarglielo nei modi giusti per l’età del bambino;
  3. I bambini non hanno voce in capitolo rispetto alla gestione del loro tempo che diventa una infinita catena di montaggio e di incastri e ciò, purtroppo, li porta a muoversi nel mondo senza reale consapevolezza di quello che stanno facendo e soprattutto di come lo stanno facendo (cosa a cui noi adulti siamo abituati e per questo soggetti a stress)…

Tutto ciò mi ha portata ad una considerazione importante ossia “e l’aspetto ludico ?”

Oggi mettiamo i nostri figli in condizione di stressarsi anche in età abbastanza inusuale… Anche al nido (non tutti, ma molti) ancor prima di vivere lo stress e quindi l’adattamento dovuto al nuovo ambiente e a nuove persone molti genitori sono impazienti e intrepidi affinchè i propri figli comincino le famose  “attività”… a quel punto le educatrici, seppure desiderose di assecondare il normale adattamento del bambino, finiscono per assecondare questi genitori così da bombardare i bambini di stimoli anche spesso eccessivi e ciò porta i bambini a non viversi appieno per la loro età, mettendo così i bambini nella condizione di automatizzare anche ciò che in realtà dovrebbe essere gestito con consapevolezza…

Molti genitori mettono i propri figli nella condizione di essere iperstimolati e a non farli vivere anche un sano aspetto ludico con la conseguenza di bambini sempre più stressati.

Molti psicologi (APA, 2013) ritengono che i bambini de nostro tempo sono decisamente più stressati tanto che definiscono la nostra società come la “generation stress” . Infatti considerando che l’aspetto ludico passa sempre più in secondo piano a favore di un dover fare e soprattutto di un dover fare bene, non permettendo al bambino di poter sbagliare e ciò porta a far emergere uno spirito di competizione eccessivo con la conseguenza di viversi in termini di sconfitta o di vittoria.

Si passa da una eccessiva responsabilizzazione, mettendoli nella condizione di farli crescere più in fretta, ad una deresponsabilizzazione eccessiva evitando loro la sacro santa possibilità di sbagliare. Anche perché solo attraverso la possibilità di errore il bambino può andare verso uno sviluppo sano ed adeguato.

Le stesse attività extrascolastiche (sportive, di lingua straniera etc) diventano delle stressanti arene prestazionali e in tutto ciò al bambino non è permesso nemmeno di divertirsi perché guai se non è il primo in tutto ciò che fa.

Infine, e non per importanza, abbiamo lo stress di noi genitori che ci porta a vivere il nostro lavoro anche in modo diverso. Il fatto di essere iperconnessi limita il nostro spazio relazionale pregiudicando i momenti dentro casa… La giustificazione attraverso la seguente frase “è una cosa urgente di lavoro” qualche anno fa non sarebbe entrata nelle nostre case, ma sarebbe stata rimandata al giorno dopo. E questo ci porta a riflettere sull’esempio che rimandiamo ai nostri figli.

Ovviamente quando parlo di stress non voglio renderlo qualcosa di spaventoso e basta anche perché una certa quota di stress può essere sia funzionale che sana in riferimento ad alcune situazioni, ma se eccessive portano i nostri bimbi a pagare delle conseguenze importanti.

Per esperienza con i miei bimbi e anche perché abbiamo modo di ritagliarci dei momenti divertenti dove siamo solo noi, in questo periodo sto mettendo in moto delle tecniche di rilassamento che ci aiutano a gestire situazioni minori si stress che entrano nelle nostre vite al fine di viverci con sempre più consapevolezza.

Per informazioni contattare la Dott.ssa Antonella Pacciana 3311179439 (anche tramite whatsapp) oppure info@studiopsicologapacciana.it.

Dimensione Ansia: parte seconda

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Come promesso ecco la seconda parte dell’argomento Ansia.  Vi elencherò i vari disturbi d’ansia secondo il Manuale Diagnostico dei disturbi Mentali .

Rispetto alla precedente edizione del DSM (Manuale statistico dei disturbi mentali) in riferimento alla dimensione ansia ci sono stati dei cambiamenti.

Nella precedente edizione  ossia il DSM IV TR i disturbi d’ansia erano i seguenti:

  • Attacco di Panico
  • Agorafobia
  • Disturbo di Panico senza Agorafobia
  • Agorafobia senza anamnesi di Disturbo di Panico
  • Fobia Specifica
  • Fobia Sociale
  • Disturbo Ossessivo-Compulsivo
  • Disturbo Post-traumatico da Stress
  • Disturbo d’Ansia Generalizzato

Con la nuova edizione del DSM ci sono stati dei cambiamenti. Vediamoli:

Nel DSM5 i disturbi d’ansia vengono  presentati in ordine di età d’esordio

  • Disturbo d’Ansia da Separazione
  • Mutismo Selettivo
  • Fobia Specifica
  • Disturbo d’Ansia Sociale (Fobia Sociale)
  • Disturbo di Panico
  • Attacco di Panico Specifico
  • Agorafobia
  • Disturbo d’Ansia Generalizzato
  • Disturbo d’Ansia indotto da Sostanza/Farmaco
  • Disturbo d’Ansia dovuto ad Altre Condizioni Mediche
  • Altri Disturbi d’Ansia Specifici
  • Disturbo d’Ansia Non Specificato

Quali le differenze?

Non rientrano più in questo capitolo il disturbo  ossessivo-compulsivo, e i disturbo  acuto e post-traumatico da stress. Questi fanno parte di nuovi capitoli consecutivi a quello sull’ansia.

Disturbo di panico e agorafobia sono ora diagnosi separate e qualora dovessero coesistere  verranno definiti con doppia diagnosi. Viene aggiunto lo specificatore “legata solo alla performance” .

Il Disturbo d’ansia di separazione e il mutismo selettivo sono ora classificati come disturbi d’ansia: diversamente dal DSM- IV i criteri diagnostici non specificano più che l’esordio debba avvenire prima dei 18 anni.

Per  l’ Attacco di panico i criteri diagnostici restano simili a quelli del DSM-IV TR, ma si enfatizza la differenziazione tra attacchi attesi ed imprevisti.

I criteri per l’agorafobia, Fobia specifica e disturbo d’ansia sociale non richiedono più la necessità  – per la diagnosi- che il paziente riconosca che l’ansia è irragionevole o eccessiva.

La durata minima di 6 mesi è necessaria per la diagnosi anche al di sotto dei 18 anni d’età. Questo ha l’intento di ridurre le diagnosi riferite a paure o ansie transitorie.

Disturbo d’ansia da separazione e Mutismo selettivo, prima inserite tra le diagnosi dell’età infantile e dell’adolescenza, oggi ricollocati tra i disturbi d’ansia.

Ovviamente la scomposizione dei vari disturbi non esclude che l’ansia sia presente in quasi tutte le patologie del DSM.

A cosa serve questa classificazione? All’utenza non serve quasi a nulla (ai fini terapeutici), ma per i clinici è importante  in quanto una diagnosi accurata ci permette di poter lavorare meglio e circoscrivere il problema, anche se sappiamo che nell’arco del tempo potrebbero verificarsi ed uscire a galla situazioni altre.

Come si fa diagnosi?

Attraverso il colloquio clinico e vari test. Vi elenco i test che uso io:

  • Il Wartegg
  • L’MMPI II
  • Il test di Rorschach
  • Test della figura umana
  • Test dell’albero
  • Test fella famiglia
  • Test dell’uomo sotto la pioggia

 

Attraverso i test è possibile vedere ciò che è inconscio e a volte può essere un valido strumento. Personalmente non sempre uso i test, verifico di volta in volta se usarli oppure no. Quando ero una psicoterapeuta in formazione ho avuto la possibilità di svolgere un tirocinio in una clinica psichiatrica e lì ho conosciuto professionisti, che stimo profondamente, che mi hanno fatto capire quanto sia importante l’uso dei test in riferimento ad alcune tipologie di pazienti e in riferimento ad alcune situazioni in particolare.

Vi descrivo i criteri diagnostici secondo il DSM V di alcuni dei disturbi d’ansia con cui lavoro maggiormente.

Fobia Specifica

  1. Marcata paura o ansia rispetto a un oggetto o situazione specifici (volare, altezze, animali, punture, vedere il sangue) Nota: Nei bambini, la paura o l’ansia può essere espressa piangendo, con scoppi di ira, freezing
  2. L’ oggetto o la situazione fobica provoca quasi sempre paura immediata o ansia
  3. L’oggetto o la situazione fobica viene attivamente evitata o sopportata con intensa paura o ansia
  4. La paura o ansia è sproporzionata al pericolo reale rappresentato dall’oggetto o situazione specifici e rispetto al contesto socio-culturale
  5. La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti, di solito della durata di 6 mesi o più
  6. La paura, l’ansia o l’evitamento causano disagio clinicamente significativo o menomazione nella area sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento

Fobia Specifica G. Il disturbo non è meglio spiegato da sintomi di un disturbo mentale,  tra cui la paura, l’ansia e l’evitamento di situazioni associate con i sintomi tipo panico o altri sintomi invalidanti (come nell’agorafobia): oggetti o situazioni relativi a ossessioni (come nel disturbo ossessivo-compulsivo), i ricordi di eventi traumatici (come nel Disturbo da Stress Post-traumatico); separazione da casa o dalle figure di attaccamento (come nel Disturbo d’Ansia da Separazione) o situazioni sociali (come nel Disturbo d’Ansia Sociale)

Specificare se: 300,29 (F40.218) animali (ragni, insetti, cani) 300,29 (F40.228) Ambiente naturale (altezze, temporali, acqua) 300,29 (F40.23X) Sangue – Iniezioni-Ferite (gli aghi, trattamenti medici invasivi). 300,29 (F40.248) situazionale (aeroplani, ascensori, luoghi chiusi) 300,29 (F40.298) Altro (situazioni che possono portare al soffocamento o vomito: nei bambini, ad esempio, rumori forti)

DISTURBI D’ANSIA

300.23 (F40.10) Disturbo d’Ansia Sociale 

  1. Marcata paura o ansia rispetto a una o più situazioni sociali in cui l’individuo è esposto al possibile giudizio degli altri. Gli esempi includono le interazioni sociali (nel corso di una conversazione, conoscere persone non familiari), di essere osservato (mangiare o bere) e le performance di fronte ad altri (un discorso) Nota: Nei bambini, l’ansia deve manifestarsi con i coetanei e non solo durante le interazioni con gli adulti
  2. L’individuo teme di mostrare i sintomi di ansia e che verranno valutati negativamente (umiliazione, imbarazzo)
  3. Le situazioni sociali provocano quasi sempre paura o ansia Nota: Nei bambini la paura o l’ansia può essere espressa piangendo, con scoppi di ira, freezing o stare in disparte in situazioni sociali
  4. Le situazioni sociali vengono evitate o sopportate con intensa paura o ansia
  5. La paura o ansia è sproporzionata alla minaccia reale rappresentata dalla situazione sociale e al contesto socio-culturale
  6. La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti, di solito della durata di 6 mesi o più
  7. La paura, l’ansia o l’evitamento causano disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti del funzionamento
  8. La paura, l’ansia o l’evitamento non è imputabile agli effetti fisiologici di una sostanza o di un’altra condizione medica
  9. La paura, l’ansia o l’evitamento non sono meglio spiegati con i sintomi di un altro disturbo mentale, come il Disturbo di Panico, Disturbo da Dismorfismo Corporeo o da un Disturbo dello Spettro Autistico
  10. Se è presente un’altra condizione medica (morbo di Parkinson, l’obesità o lesioni), la paura, l’ansia o l’evitamento è chiaramente non correlata o eccessiva Specificare se: Solo Performance: se la paura è limitato a parlare o esibirsi in pubblico

300.01 (F41.0) Disturbo di Panico

  1. Attacchi di panico inaspettati e ricorrenti. Un attacco di panico è un improvviso aumento di intensa paura o disagio che raggiunge un picco in pochi minuti, durante i quali si verificano quattro (o più) dei seguenti sintomi:
  2. Palpitazioni, sensazione di cuore in gola o tachicardia 2. Sudorazione 3. Tremori o agitazione  4. Sensazioni di mancanza di respiro o di soffocamento  5. Sensazioni di soffocamento  6. Dolore o fastidio al petto  7. Nausea o disturbi addominali  8. Sensazione di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento  9. Brividi o sensazioni di calore 10. Parestesia (intorpidimento o formicolio)  11. Derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi)  12. La paura di perdere il controllo o di “impazzire ” 13. Paura di morire

Nota: Potrebbero essere presenti segni culturali specifici (acufeni, dolori al collo, emicrania, urla o pianti incontrollabili). Tali sintomi non dovrebbero considerati tra i quattro sintomi richiesti.

  1. Almeno uno degli attacchi è stato seguito da 1 mese (o più) di uno o di entrambi i seguenti:

1.Preoccupazioni persistenti relative al verificarsi degli attacchi di panico o alle loro conseguenze (perdere il controllo, avere un attacco cardiaco, “impazzire “) 2. Un significativo cambiamento disadattivo relativo ai comportamenti legati agli attacchi (comportamenti atti ad evitare gli attacchi di panico, per esempio evitare l’esercizio fisico o situazioni non familiari)

  1. Il disturbo non è dovuto agli effetti fisiologici di una sostanza o di un’altra condizione medica (‘ipertiroidismo, disturbi cardiorespiratori)
  2. Il disturbo non è meglio spiegato da un altro disturbo mentale (es. gli attacchi di panico non si verificano solo in risposta a situazioni sociali temute, come nel Disturbo d’Ansia Sociale; in risposta a oggetti o situazioni fobiche circoscritte, come nella Fobia Specifica; in risposta a ossessioni, come nel Disturbo Ossessivo – compulsivo; in risposta a ricordi di eventi traumatici, come nel Disturbo Post-Traumatico da Stress; in risposta alla separazione dalle figure di attaccamento, come nel Disturbo d’Ansia da Separazione)

Specificatore: Attacco di Panico Considerare i sintomi allo scopo di identificare un attacco di panico; tuttavia, l’attacco di panico non è un disturbo mentale e non può essere codificato. Può verificarsi nel corso di qualsiasi disturbo d’ansia e altri disturbi mentali (disturbi depressivi, disturbo post-traumatico da stress, disturbi da uso di sostanze) e di alcune condizioni mediche (cardiache, respiratorie, vestibolari, gastrointestinali). Quando è stata identificata la presenza di un attacco di panico, va specificata (es. «Disturbo da Stress Post-traumatico Specifico con Attacchi di Panico ”

300.22 (F40.00) Agorafobia

  1. Marcata paura o ansia in due (o più) delle seguenti situazioni: 1. Con i mezzi pubblici (automobili, autobus, treni, navi, aerei) 2. Trovarsi in spazi aperti (parcheggi, mercati, ponti) 3. Essere in luoghi chiusi (negozi, teatri, cinema) 4. Stare tra la folla 5. Non stare bene fuori di casa
  2. L’individuo prova paure o evita queste situazioni al pensiero che potrebbe essere difficile fuggire o potrebbe non essere disponibile aiuto in caso di sintomi tipo panico o altri sintomi invalidanti o imbarazzanti (paura di cadere degli anziani; paura di incontinenza)
  3. Le situazioni agorafobiche provocano quasi sempre paura o ansia
  4. Le situazioni agorafobiche sono attivamente evitate, implicano la presenza di un compagno o sono sopportate con intensa paura o ansia
  5. La paura o l’ansia risultano sproporzionate al pericolo reale e al contesto socio-culturale .
  6. La paura, l’ansia o l’evitamento sono persistenti, di solito della durata di 6 mesi o più
  7. La paura, l’ansia o l’evitamento causano disagio clinicamente significativo o menomazione nel sociale, lavorativa o di altre aree importanti del funzionamento
  8. Se è presente un’altra condizione medica (infiammazione intestinale, morbo di Parkinson) la paura, l’ansia o l’evitamento sono chiaramente eccessivi
  9. La paura, l’ansia o l’evitamento non sono meglio spiegati con i sintomi di un altro disturbo mentale, es. i sintomi non si limitano alla Fobia Specifica, tipo situazionale; non coinvolgono solo le situazioni sociali (Disturbo d’Ansia Sociale) e non sono correlati esclusivamente alle ossessioni (Disturbo Ossessivo-compulsivo), disturbi nella percezione dell’aspetto fisico (Disturbo da Dismorfismo Corporeo), ricordi di eventi traumatici (Disturbo Posttraumatico da Stress) o la paura della separazione (Disturbo d’Ansia da Separazione)

Nota: agorafobia è diagnosticata indipendentemente dalla presenza di disturbo di panico. Se la manifestazione dei sintomi soddisfa i criteri per il disturbo di panico e agorafobia, devono essere fatte entrambe le diagnosi

300.02 (F41.1) Disturbo d’Ansia Generalizzato 

  1. eccessiva ansia e preoccupazione (attesa apprensiva), che si verificano per la maggior parte dei giorni per almeno 6 mesi, relative ad una serie di eventi o attività (performance lavorative o scolastiche)
  2. L’individuo ha difficoltà a controllare la preoccupazione
  3. L’ansia e la preoccupazione sono associate con tre (o più) dei seguenti sei sintomi Nota: nei bambini è richiesto un solo un elemento. 1. Restlessness (irrequietezza/sindrome delle gambe senza riposo) 2. Facile Faticabilità 3. Difficoltà di concentrazione o vuoti di memoria 4. Irritabilità 5. Tensione muscolare 6. Disturbi del sonno (difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno o irrequietezza)
  4. L’ansia, la preoccupazione, oi sintomi fisici causano disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti

Qualche considerazione teorica sulla Fobia

Inizialmente avevo voglia di presentarvi un quadro teorico sulla dimensione ansia, ma entrando nello specifico ricadevo nella tecnica con la difficoltà principale di fare in modo che questo post potesse essere fruibile per tutti e non solo per gli addetti ai lavori (ovviamente scrivendo i criteri diagnostici del DSM c’è poco di fruibile, ma volevo mantenere una promessa anche se mi rendo conto che il post possa essere noioso).

Vi scrivo solo qualche altra piccola considerazione in riferimento agli aspetti teorici. Per esempio per quanto riguarda le fobie bisognerebbe soffermarci un attimo e renderci conto che guardando i bambini ci accorgeremmo che loro le fobie le hanno tutte. Lo scorso anno ho sentito una mamma particolarmente ansiosa del fatto che la sua bambina ad un tratto senza nessun motivo apparente e senza preavviso avesse sviluppato la paura del buio.  È assolutamente normale che un bambino in età edipica possa sviluppare la paura del buio ed è un cosa assolutamente frequente quindi cari genitori non vi angosciate più di tanto… pian piano scomparirà. Da adulto la persona fobica ricorda le passate esperienze con le  cariche pulsionali dove da bambino ha creato la paura quindi l’Io per far fronte a queste cariche pulsionali ha messo in atto le fobie, delle paure di evitamento ecc… Quando ciò gli succede in età adulta si regredisce a quella situazione in cui si è messo in atto la fobia. Si regredisce al bambino fobico. È un nucleo infantile che permane e reagisce di fronte alle cariche pulsionali stimolate dall’esterno come ha reagito il bambino. Davanti a certe cariche esterne l’adulto che ha sviluppato un Io più forte avrà una paura che farà mettere in atto dei comportamenti più maturi invece laddove c’è stati un Io che non è ben strutturato perché c’è la fissazione al mondo infantile delle fobie si regredisce a quel periodo e si mettono in atto le stesse difese di quando era piccolo. L’angoscia che provava da bambino è la paura di rivivere lo stesso stato traumatico vissuto da bambino, è la paura di essere sopraffatto da queste eccitazioni da quelle eccitazioni che ha avuto quando era bambino quindi se continua a spaventarsi tanto rispetto a queste cose vuol dire che l’Io non funziona bene e quindi rimette in atto le stesse modalità per esempio se il bambino aveva paura del buio da grande rimetterà in atto tutte fantasie connesse.

PAURA DE BUIO se c’è l’altro, se  c’è la luce possiamo controllare le pulsioni, ma le pulsioni generano delle fantasie inconsce quindi nel buio si generano tutte le fantasie inconsce create dalle pulsioni e arriva la paura del buio.

Come dicevo prima per poter capire quello che c’è nelle persone fobiche dobbiamo capire bene quello che succede ai bambini piccoli perché i bambini piccoli sono isterici, ossessivi  e prima ancora erano psicotici. Noi passiamo delle fasi e alcuni nuclei di queste fasi ce li portiamo dietro. Siamo il risultato della nostra storia interna, quello che noi abbiamo riguarda al  nostro passato. Una persona adulta che è rimasta fobica  non è riuscita ad elaborare le angosce di quando era bambino quindi a superarle, quindi l’adulto come il bambino non riesce a giudicare l’aspetto esteriore della cosa fobica.

Non riesce a dominare la pulsione e l’eccitazione relativa a questo perché ha paura di essere sopraffatto come da bambino. Il  bambino non riesce a dominare i desideri, i propri  istinti e li trasforma in angoscia nella fobia adulta e questo porta alla fobia degli animali (uomini deformati in animali). Originariamente la fobia era un’angoscia di non riuscire a dominare i propri istinti, i desideri quindi gli uomini li immagina sotto forma di animali.

C’è una relazione tra sviluppo dell’Io e il tipo di fobia. Più primitivo è l’Io meno contenuta sarà l’angoscia, più si evolve l’Io più si ha un approccio con la realtà e quindi se si ha più principio di realtà avremo una fobia meno forte.

Avrei voluto scrivere tanto altro e spero di poterlo fare al più presto magari cercando il modo per potervi raccontare molto di più degli aspetti teorici dell’ansia.

Dimensione Ansia: Parte prima

panicoLa maggior parte dell’utenza del mio studio è rappresentata da persone con disturbi d’ansia. Volevo raccontarvi alcuni aspetti della dimensione ansia e volevo cominciare attraverso quella che i pazienti amano particolarmente ossia la dimensione neurobiologica dell’ansia…anche  perché spesso accedono al mio studio o a quello di miei colleghi dopo aver intrapreso altri percorsi…soprattutto di natura farmacologica. Vi è un’intolleranza nell’accettazione diversa da quella medica della dimensione ansia. Grazie alle neuroscienze qualche passo è stato portato avanti per noi psicoterapeuti nella difficile dimostrazione degli effetti positivi della psicoterapia, ma accettare di entrare in psicoterapia è molto difficile e la maggior parte della gente preferisce solo l’uso di psicofarmaci rispetto alla ricerca di una spiegazione altra dello stato ansioso.  Quando un paziente ansioso si affaccia al mio studio gli dico che nonostante lo stato di disagio che vive dovuto a sensazioni che non riesce a tollerare in realtà quella che a fatica definiscono ansia rappresenta “un’ opportunità” e come tale vanno ricercate le cause inconsce di quello stato senza la fretta di non provare più quel disagio…perché io come psicoterapeuta non prometto miracoli, ma offro una possibilità per capire le cause che arrivano da lontano e dare un senso a quel disagio per liberarsene realmente. Negli ultimi anni  sono gli stessi neurologi, psichiatri e medici di base che consigliano i coadiuvare alla psicofaramacologia anche l’uso di un percorso psicoterapico.

Oggi abbiamo una percezione dell’ansia come affetto sgradevole con correlazioni fisiologiche.

L’ansia è una condizione fisiologica del nostro organismo, del nostro sistema nervoso centrale che si verifica in qualunque situazione in cui l’organismo deve essere in una situazione di allerta e questo ci consente la possibilità di avere la percezione di pericolo e mette l’organismo nella condizione di avere una reazione.  Spesso lo stimolo non passa attraverso la coscienza quindi in realtà una situazione di ansia che insorge improvvisamente in una persona può essere collegata a una percezione inconscia di una situazione potenzialmente pericolosa che richiede all’organismo di affrontarla.

L’ansia e la paura  sono sovrapponibili. Semanticamente la paura è più definita mentre l’ansia no perché è qualcosa che l’individuo non riesce a spiegarsi in quanto quando scatta lo stato ansioso ciò è determinato da uno stimolo che non riusciamo a percepire a livello cosciente anche se è percepito come potenziale pericolo (soprattutto come pericolo di morte percepito come paura di un imminente attacco cardiaco).

L’ansia funzionale cioè quella che si attiva nel momento in cui percepiamo il pericolo ha consentito all’individuo nell’arco dell’evoluzione di avere delle reazioni adeguate che sono: di attacco e di fuga. Esiste anche una reazione di morte apparente anche se non è funzionale per l’essere umano rimanere in mobilità per molto tempo.

Come detto pocanzi ansia e paura sono molto simili, ma mentre la paura ha un oggetto (ho paura di x) l’ansia non ha oggetto ossia mi sento in pericolo, ma non so da cosa devo difendermi.

Rivedendo i miei appunti di Psicofarmacologia della Scuola Romana di Psicologia Clinica Imago (scuola dove mi sono specializzata come psicoterapeuta) mi piaceva molto quanto avevo appreso rispetto ad una delle tante spiegazioni rispetto alla dimensione ansia.  Il mio professore ci raccontava che le scienze evoluzionistiche hanno evidenziato una nostra sostanziale giovinezza a livello di Sistema Nervoso.

Perché abbiamo una casistica di stati ansiosi?Secondo gli studi evoluzionistici proprio perché noi non siamo ancora adattati all’ambiente che abbiamo creato siamo sottoposti a una serie di stimoli che innescano lo stress e viviamo in condizioni di costante agitazione del sistema e questo ci rende maggiormente vulnerabili a fenomeni di improvvisa attivazione del nucleo del locus coerelus e il cortisolo si comporta come un neurotrasmettitore che induce il rilascio di noradrenalina a livello cerebrale.

Il nostro stile di vita è cambiato rispetto ai nostri antenati per cui i tempi di riposo si sono completamente modificati e quindi abbiamo alterato il bioritmo e abbiamo dei picchi circadiani di produzione di mediatori dell’ansia in rapporto a ore della giornata in cui c’era il rischio di incontrare situazioni pericolose. Quindi siamo noi che abbiamo modificato questi ritmi, soprattutto attraverso l’illuminazione.

L’uomo fino a 200 anni fa viveva senza illuminazione e molto probabilmente questo ha modificato totalmente il nostro aspetto interno di equilibrio per cui molto probabilmente la liberazione circadiana fisiologica dei circuiti dello stress e dell’attivazione di questi stessi circuiti dipende da questo ritmo circadiano che abbiamo ancora come retaggio del nostro passato evolutivo e ci costringe a vivere una realtà non adeguata rispetto ad esso.

Quando arriva una persona che lamenta un disturbo di ansia bisogna verificare se di ansia si tratta in quanto ci sono situazioni che la persona vive come ansia, ma che in realtà di ansia non si tratta.

Come primo step chiedo alla persona che arriva da me di verificare insieme al suo medico di base o al professionista psichiatra o neurologo di escludere una causa medica del suo stato ansioso in modo tale da poter fare un intervento psicoterapico mirato sull’ansia.

Per esempio una dimensione neurofisiologica che partecipa all’ansia è data dalla liberazione di noradrenalina e quindi ci possono essere delle situazioni che mimano uno stato di agitazione che uno vive come ansia, ma che in realtà portano a situazioni mediche organiche. Per esempio abbiamo l’ipertiroidismo che può attivare i circuiti dell’ansia, ma che in realtà di ansia non si tratta.

Ci può essere anche un’iperattività della midollare del surrene e quindi alla conseguente liberazione di noradrenalina.

Ci possono essere condizioni in cui una persona è irrequieta e ciò si può spiegare con quella che viene chiamata acatisia.

L’acatisia che dipende da alcuni farmaci è uno sbilanciamento che regola il sistema nigrostriatale che porta a sintomi extrapiramidali con sintomi motori e irrequietezza interna.

Lo stato ansioso può dipendere anche dall’uso del cortisone che porta uno stato di insonnia, tensione, ma questi sono legati all’effetto stesso del cortisone.

Poi ci sono condizioni psicologiche che rientrano in un situazione di normalità quelle che rientrano nella definizione di ansia legata ad una situazione per esempio prima di parlare in pubblico.

Nella situazione occidentale le persone tendono a considerare patologico tutto ciò che è sgradevole quindi chiedono l’intervento sulla psiche in situazioni assolutamente fisiologiche per esempio prima di affrontare un esame. Da questo punto di vista ci siamo americanizzati e questo non porta nessun beneficio, anzi… Il mese scorso ho lavorato in una scuola secondaria, portando avanti un progetto personale sulle dipendenze, con ragazzi di 15/16 anni e uno degli aspetti maggiormente emersi è stato proprio questo. I ragazzi hanno difficoltà a tollerare le emozioni, soprattutto le emozioni negative e questo li indirizza erroneamente all’uso di sostanze psicotrope e anche all’uso di psicofarmaci anche laddove servirebbe una semplice psicoterapia. Ecco perché diviene fondamentale un’educazione emozionale fin da piccolissimi. Bisogna insegnare ai genitori ad  educare i propri figli alle emozioni e alla tolleranza delle emozioni negative e questo non può contemplare l’uso del telefonino come effetto calmante per il bambino. Durante i miei seminari riecheggia spesso una domanda sull’uso improprio dei cellulari soprattutto per i più piccoli. Durante la mia infanzia sentivo parlare dell’uso eccessivo della Tv e sui suoi rischi e come al solito ogni epoca porta nuove opportunità, ma anche nuove patologie… Sono mamma di sue bimbi e posso capire la difficoltà dei genitori nel bloccare l’uso dei telefoni…la mia risposta alla domanda se i cellulari possono creare effetti negativi è si, ma come la tv era negativa per la nostra generazione…nel senso se un bambino viene lasciato davanti al telefono da solo allora lì subentra una problematica (non tanto diversa dai bambini che vengono lasciati soli a guardare la tv per tante ore). Come per tutte le cose è l’uso che noi decidiamo di fare di quello strumento…se il telefono o la tv hanno un fine relazionale non possono creare danno perché rappresenta uno strumento come un altro che mi mette in relazione con il bambino. Con fine relazionale intendo un adulto che è accanto al bambino e che insieme si spiegano e si raccontano quello che stanno guardando.  Inoltre se lascio il telefono al bambino per farlo calmare allora lì gli sto creando un danno ancora maggiore perché gli sto lasciando un messaggio molto grave ossia “ adesso non riesco a trovare una modalità più faticosa per calmarti e ti faccio usare il telefono (che ha un effetto calmante per il bambino) quindi da adulto qualora avrai una sensazione sgradevole io come genitori non avendoti  insegnato una modalità sana per far fronte a quella sensazione ti sto dicendo che potrai calmarti con qualcos’altro che potrà oscillare dall’ansiolitico all’alcool o sostanze psicoattive di altro genere.

Nel mio prossimo post vi elencherò la nuova classificazione dei disturbi d’ansia secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (il DSMV).

Le regole e i limiti che portano alla crescita delle strutture psichiche del bambino

regole e ruoli

J.Rogge (2001) afferma che “chi non formula regole, né stabilisce limiti, richiede ai bambini prestazioni intellettive o emotive oltre la loro portata”. Le regole sono come i binari di un treno per i bambini, determinano una strada da seguire; sono come mancorrenti a cui i bambini possono appoggiarsi quando l’impulso ad agire è più forte e determina un conflitto al quale la regola stessa può porre fine. Senza regole un bambino resta in balia di se stesso suo malgrado.

Spesso sentiamo genitori affermare che il bambino dovrebbe capire da solo cosa può fare e cosa non può fare. Ciò capita soprattutto a quei genitori che hanno difficoltà nel discutere con i figli pensando che evitare il conflitto possa renderli liberi da qualsiasi problematica futura. In  questa maniera però i figli non vengono aiutati nel capire come muoversi nel mondo. Nel mio ultimo post sulle interiorizzazioni trasmutanti vi ho detto che i bambini hanno il diritto di sperimentare esperienze di vita positive, ma che diventa essenziale per loro sperimentare anche la delusione perché ogni volta che un bambino viene deluso dai suoi genitori di conseguenza si verifica una crescita delle sue strutture psichiche e questo rappresenta un piccolo passo nello sviluppo delle capacità di badare a se stessi.

Ovviamente le sofferenze causate da queste delusioni non devono essere troppo grandi; devono essere sufficientemente grandi e alla portata delle capacità cognitive del bambino che in quel momento le riceve. In questa maniera sarà in grado di prevedere esperienze future senza esserne sopraffatto.

L’esperienza della delusione è sicuramente in stretto contatto con il concetto di limite. Porre dei limiti e dare delle regole chiare significa aiutare i bambini a fare ordine nel mondo e comprendere che alcune cose si possono fare e altre no, almeno in quel momento. Gli stessi limiti posti in modo contraddittorio o anche gli stessi limiti non concessi producono la conseguenza di confondere il bambino sulla sua percezione del mondo, di se stesso e degli altri.

Come sempre anche le regole rigidamente imposte non rappresentano un qualcosa di “sano”… il non porre limiti e quindi regole piuttosto l’esagerazione del suo opposto porta sicuramente a delle problematiche future!

Bibliografia

Non farmi camminare con i tacchi alti, Lucia Attolico (2007)

Ego state therapy Interventi di base sugli stati dell’io, Robin Shapiro (2016)

L’importanza e il diritto per ogni bambino di sperimentare esperienze positive

interiorizzazioni trasmutantiesperienze negative

Oggi dopo qualche mese di assenza vorrei riprendere il mio blog e parlarvi di quelle che la psicologia del sé chiama interiorizzazioni trasmutanti. Con ciò ci si riferisce ad esperienze idealmente positive con genitori e/o modelli significativi che ogni bambino ha il diritto di vivere in una infanzia “normale”. Tutto ciò pian piano porta il bambino ad interiorizzare quelle esperienze che poi saranno acquisite nella sua struttura di personalità.

I bambini con esperienze positive di attaccamento e accadimento saranno quindi in grado di consolarsi con gli stessi abbracci e con le stesse parole di conforto che hanno ricevuto dai propri caregiver per esempio: “se sei qui con la tua mamma non ti può succedere nulla” oppure “vedrai che andrà tutto bene”.  Ovviamente il bambino deve anche percepire la delusione (fondamentale per la crescita delle sue strutture psichiche), ma di questo vi parlerò nel mio prossimo post.

Prima di sperimentare la delusione però il bambino impara un insieme di esperienze positive con genitori calmi. In questa maniera imparerà a tollerare un insieme di esperienze senza che queste possano sopraffarlo. Quando in qualsiasi momento della sua vita arriveranno situazioni di tensione non avrà più bisogno di una madre che lo tranquillizzi perché avrà interiorizzato una struttura che gli permetterà di tranquillizzarsi e calmarsi da solo. Come detto all’inizio questo processo viene denominato dagli psicologi del sé interiorizzazioni trasmutanti. Molti potrebbero obiettare e dire che si tratta dell’identificazione, ma a differenza dell’interiorizzazione trasmutante l’identificazione implica una totale interiorizzazione dell’altra persona.

Ovviamente in una singola esperienza non è possibile interiorizzare le parti di una persona tranquillizzante: vi è bisogno di molte piccole esperienze per fare ciò (Ornstein, 1978S).

Grazie a queste interiorizzazioni i bambini assorbono i concetti, i comportamenti, le emozioni e i modi di fare dei genitori, di altri bambini, degli insegnanti e di altre persone che frequentano.

Inizialmente vi ho detto che i bambini hanno il diritto di sperimentare situazioni positive con caregiver altrettanto positivi, ma la realtà ci porta a vedere che questo non sempre accade. Infatti può succedere che un bambino faccia, suo malgrado, anche esperienza di cose negative e per lo stesso meccanismo rispetto alle esperienze positive potranno così assorbire ansie, rabbia o anche gli aspetti depressivi dei genitori.

Capita anche che i bambini riproducono a voce le minacce dei genitori maltrattanti. Oltre ai genitori, che sono assolutamente i primi modelli per i propri figli, la scuola con i suoi insegnanti rappresentano modelli altrettanto fondamentali nella vita dei bambini e purtroppo la cronaca e non solo ci racconta spesso di insegnanti abusanti, violenti e maltrattanti.

Se queste esperienze negative cominciano a diventare costanti i bambini possono così interiorizzare quelli stessi aspetti e sviluppare una voce interiore che li critica per ogni loro comportamento.

Ecco perché è di fondamentale importanza che ogni bambino possa sperimentare situazioni di vita positive e bisogna combattere per far sì che almeno l’istituzione scuola possa garantire un diritto così importante per la loro vita.

Bibliografia:

Psicoterapia Adolescenti e psicologia del sé, Gustavo A.Lage, Harvey K.Nathan (1995)

Ego state therapy Interventi di base sugli stati dell’io, Robin Shapiro (2016)

Adolescenti con nuove patologie

Spesso l’adolescente e il giovane adulto quando non riesce a legare in modo sufficiente l’aggressività di modo da modificarla e integrarla in modo utile ecco che queste spinte possono irrompere come “agiti”.

Questi atti aggressivi (auto ed etero diretti) hanno lo scopo di ristabilire l’equilibrio interno.

L’adolescente e il giovane adulto utilizzeranno oggetti esterni da cui dipendere e che fantasticamente controlleranno al fine di svolgere una funzione di schermo dall’eccitazione vissuta come pericolosa.

L’uso di droghe, i disturbi alimentari, il gioco d’azzardo patologico, attività sessuali promiscue etc spesso sono usati per combattere una dipendenza nei confronti di un partner o della persona dello psicoterapeuta o analista.

(Tratto da Violenza e nuove patologie adolescenziali di AnnaMaria Nicolò)

Tra gli oggetti esterni da cui dipendere oggi esistono quelle che vengono definite droghe senza sostanza ossia la tanto chiaccherata dipendenza da gioco.

Alcuni dati raccolti da telefono azzurro e Euripes nel 2012 (effettivamente ricerca un po’ datata) fanno pensare ad una vera e propria emergenza  per bambini , pre-adolescenti e adolescenti che possa sfociare nella tendenza al gioco compulsivo.

L’obiettivo di questo post è rivolto in prima battuta ai centri scommesse, sale giochi e ovviamente alle istituzioni.

Al di là delle motivazioni che spingono l’adolescente all’uso di sostanze illecite o a comportamenti sessuali promiscui dovuti ad una fragilità del singolo individuo è anche vero che lo Stato, le Regioni e i Comuni non fanno nulla se non piccoli progetti rivolti solo ai ragazzi senza tra l’altro una disamina precisa del territorio e della cultura locale.

Solitamente le responsabilità vengono delegate ai singoli senza che le istituzione se ne fanno carico realmente. Si pensi a varie normative regionali atte a contrastare il GAP che con molta disinvoltura vengono negate dai comuni come la LEGGE REGIONALE 13 dicembre 2013, n. 43.

Uno Stato e quindi un Comune che denuncia , restringe e grida a gran voce che la situazione GAP è un problema e cerca di trovare delle soluzioni è un esempio, rappresenta un modo sano di far sentire che esiste la funzione normativa (rappresentante della funzione normativa genitoriale) che consiste nella capacità di dare dei limiti come struttura di riferimento di comportamenti coerenti e che riflette la cultura di appartenenza ed per questo motivo che se ne deve fare carico lo Stato e i loro rappresentanti e non delegare il problema al singolo e quindi a prendere le distanze pensando erroneamente che il problema sia solo del singolo individuo o/e della singola famiglia.

Ognuno con le proprie responsabilità può e deve fare qualcosa di concreto e non la solita soluzione di convenienza che serve solo a politici per una foto o un articolo su facebook e che certamente non aiuta l’adolescente e il giovane adulto…